Backstory
di Mark Lewis, 2009, 39'
FOTOGRAFIA: Brian Pearson   CO-PRODUZIONE: Van Abbemuseum (Eindhoven), The Channel 4 British Documentary Foundation (London), Westdeutscher Rundfunk (Germany), Galerie Serge Le Borgne (Paris), Monte Clark Gallery (Vancouver), Clark & Faria (Toronto), Le Grand Café (Saint–Nazaire)
SUONO: Michael Weinstein    
RETROPROIEZIONI: Hansard Projections    
MONTAGGIO: Anne Monnehay    
PRODUTTORE: Michael White    

Schermo dell'Arte - Archivio Film
Presentato allo Schermo dell'arte Film Festival 2009

Quasi ognuno di noi ha avuto l’esperienza di vedere un film nel quale una persona, da sola o con dei passeggeri, vista attraverso il parabrezza, guida per un po’ una macchina. La cosa memorabile della scena è che il guidatore sembra non avere quasi una relazione fisica con il veicolo e non sembra fare uno sforzo per operarlo. Lui o lei sono assorbiti da una conversazione con un passeggero, oppure da eventi che stanno succedendo al di fuori della macchina. Gli spettatori possono vedere dove si trova la macchina perché il mondo esterno è visibile dai finestrini laterali o da quello posteriore, ma tutto sembra distante e quasi sconnesso. In più, la luce fuori dalla macchina non corrisponde precisamente all’illuminazione dell’interno; il mondo esterno appare vivido e pieno di cambiamenti, mentre quello all’interno del veicolo è statico e rimane fermo. Sul parabrezza non appaiono quasi mai riflessi. Non è un segreto per nessuno che quella che stiamo guardando sia in realtà una scena composita, nella quale l’esterno è stato fotografato prima per essere poi proiettato dietro al set nel quale sono stati filmati gli attori. Gli eventi sono più o meno sincronizzati, così che quando il guidatore gira lo sterzo a sinistra, la scena esterna gira, come deve, verso destra. Questa “retroproiezione” viene usata in molti casi: per scene che prevedono persone che camminano lungo un marciapiede, o che chiacchierano davanti a un ristorante molto affollato, o che si arrampicano su una parete pericolosamente ripida, e così via. Intorno agli anni Settanta queste scene cominciarono ad apparire artificiali. È già da tempo diventato ovvio che il lungo e complicato sistema di costruire materiale per sfondi e poi farlo combaciare con l’azione ripresa produce il risultato di interrompere troppo quell’unità illusoria di un mondo che il cinema sta descrivendo. Le immagini così prodotte sono intrinsecamente imperfette, anche quando, come si vede nel film Backstory di Mark Lewis, esse sono costruite da professionisti altamente qualificati e di grande esperienza.
È proprio questo elemento di imperfezione che ha reso cara la retroproiezione a tutti coloro i quali preferiscono che il cinema mostri discrepanze, interruzioni e momenti nei quali la complessiva unità degli spazi fotografati si incrina, anche solo di poco. Si trae un gran piacere dalla consapevolezza dell’artificiosità del film, e dal comprendere che la realtà non può essere del tutto incorporata in quell’enorme sforzo di ricostruzione che sappiamo essere il cinema.
La retroproiezione è stata usata con grande sottigliezza e arte, in maniera tale da rendere quella leggera sospensione dell’unità spaziale, che si viene a creare, parte integrante del significato e del contenuto emotivo di film come Vertigo e Marnie di Alfred Hitchcock. Entrambe questi film sono stati pietre miliari per i nuovi studi critici degli anni Sessanta e Settanta, che hanno analizzato l’implicita codificazione delle norme come mai era stato fatto fino ad allora. Mark Lewis ha cominciato a lavorare in quel periodo di decostruzione dei codici cinematici e quindi non sorprende che sia rimasto affascinato dalla tecnica della retroproiezione e che ne abbia fatto uso nel suo lavoro con effetti sorprendenti e del tutto inusuali.
Per Backstory Lewis ha invitato la famiglia Hansard, che per parecchi decenni è stata centrale per la realizzazione e lo sviluppo della retroproiezione in centinaia di produzioni Hollywoodiane, a raccontare la loro storia (che viene narrata con senso dello humour e schiettezza) da quando queste tecniche erano usatissime fino al loro declino e alla loro sparizione, quando sono state rimpiazzate da nuove tecnologie e nuovi gusti in materia di visibilità. Jeff Wall, Aprile, 2009

Mark Lewis
(Hamilton, Canada, 1958). Vive a Londra. Protagonista del Padiglione Canada alla Biennale di Venezia 2009, è Professore al Central Saint Martins College of Art & Design di Londra. Nel 1998 ha fondato, con Charles Esche, l’organizzazione di ricerca e editoria Afterall. Sue opere sono presenti alla National Gallery of Canada, al Museum of Modern Art (New York), al Musée d’Art Contemporain de Montréal e al Centre Pompidou (Parigi).

www.marklewisstudio.com / www.afterall.org

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